Giudice non imparziale? Ecco cosa puoi fare per tutelarti


Il principio fondamentale dell’imparzialità del giudice ottiene, nel codice di procedura penale, specifica tutela attraverso gli istituti dell’incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione.
L’imparzialità implica non soltanto l’assenza di vincolo di subordinazione rispetto agli interessi delle parti incausa (il c.d. principio nemo judex in causa propria), ma, in una più ampia prospettiva, la non soggezione a condizionamenti di ogni genere che possano prevalere sulla necessità di accertamenti corretti e di valutazioni serene ed esclusivamente ispirate dallo scopo di decidere secondo diritto e giustizia.
L’articolo 111 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, ha fissato il principio di imparzialità – unitamente a quello di terzietà – del giudice, fugando, per tal via, ogni dubbio sul fondamento costituzionale di siffatto qualificativo.

Il concetto di imparzialità, inteso come «mancanza di condizionamenti e di pregiudizi» assume due connotazioni distinte: una soggettiva e una oggettiva.
La connotazione soggettiva attiene alla persona del giudice e riguarda la sua postura nei confronti della causa e dell’imputato che è chiamato a giudicare. Per essere imparziale soggettivamente, il giudice non deve avere preconcetti o prevenzioni. Soggettivamente parziale, ad esempio, sarebbe quel giudice che avesse interesse personale a un determinato esito della causa da esaminare o che avesse relazioni di parentela con una parte o ragioni di amicizia o di inimicizia con l’imputato.
La connotazione oggettiva dell’imparzialità si riferisce, invece, alla funzione del giudice e riguarda la sua posizione rispetto a qualunque causa è chiamato a esaminare. In quest’ottica, per essere imparziale oggettivamente, il giudice non deve avere pregiudizi, come accadrebbe ove egli già avesse espresso giudizi o preso parte all’assunzione di provvedimenti nel corso del procedimento. Si pensi, ad esempio, a quel giudice che abbia partecipato al giudizio del caso sottoposto al suo esame in una fase antecedente del procedimento, oppure al caso di un giudice che abbia agito prima come pubblico ministero (ipotesi, questa, ragionevolmente ipotizzabile in un ordinamento, come quello italiano, che non prevede una separazione delle carriere).
Quale garanzia di imparzialità potrebbe mai dare, il giudice, in situazioni del genere?

Ebbene, al fine di assicurare l’imparzialità di chi è chiamato a giudicare, l’art. 34 c.p.p. ha stabilito una serie di casi al ricorrere dei quali scatta l’incompatibilità dello stesso a svolgere funzioni giudiziarie in un dato procedimento.
Si tratta della c.d. incompatibilità funzionale che, secondo la norma richiamata, si realizza nel momento in cui il giudice:

  1. ha pronunciato o ha concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento;
  2. ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare, ha disposto il giudizio immediato, ha emesso decreto penale di condanna o ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere.

In questi casi il giudice non può, rispettivamente, esercitare funzioni di giudice negli altri gradi, né partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento o al giudizio per revisione, e partecipare al giudizio.
Del pari, non può esercitare l’ufficio di giudice chi ha esercitato nel medesimo procedimento funzioni di pubblico ministero o ha svolto atti di polizia giudiziaria.

Vi è, poi, accanto all’incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento, l’incompatibilità derivante da rapporti di parentela o di affinità: nello stesso procedimento non possono esercitare – secondo quanto stabilito dall’art. 35 c.p.p. – funzioni, anche separate o diverse, giudici che sono tra loro coniugi, parenti o affini fino al secondo grado.
In questo caso, si è osservato, che l’incompatibilità derivante da rapporti di parentela o di affinità mira ad evitare che tali rapporti possano influire sulla serenità del giudizio e provocare il sospetto della prevalenza dell’opinione del parente o dell’affine (Zappalà, La ricusazione del giudice penale, Giuffrè, 1989, 117).

L’obbligo di astensione da parte del giudice

Tanto nel caso in cui ricorra una ipotesi di incompatibilità funzionale (art. 34 c.p.p.), quanto di incompatibilità per ragioni di parentela (art. 35 c.p.p.), il giudice ha l’obbligo di astenersi, presentando apposita dichiarazione al presidente della corte o del tribunale che decide senza formalità di procedura.
L’art. 36, comma 1, c.p.p., elenca le ulteriori ipotesi di astensione. La prima ipotesi, prevista dall’art. 36, comma 1, lett. a), c.p.p., nella prima parte della disposizione contiene un espresso riferimento all’interesse nel procedimento: deve astenersi il giudice che “ha interesse nel procedimento o se alcuna della parti private è debitore di lui, del coniuge o dei figli”.
La giurisprudenza ha precisato che «l’interesse nel procedimento», cui fa riferimento la norma in esame, è quello per il quale il giudice ha la possibilità di rivolgere a proprio vantaggio economico o morale l’attività giurisdizionale che è stato chiamato a svolgere nel processo oppure che si è venuta a creare sulla base di rapporti personali svoltisi al di fuori del processo, mentre tale nozione è esclusa qualora il giudice abbia legittimamente svolto precedenti funzioni giurisdizionali non interferenti con suoi interessi (Cass., sez. VI, 14 novembre 1997, Strazzullo).

La seconda ipotesi, individuata dall’art. 36, lett. b), c.p.p., riguarda l’eventuale rapporto intercorrente tra il giudice e una delle parti: tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private, oppure prossimo congiunto di una di esse.
La ratio della norma consiste nella volontà di prevenire i pericoli per la giustizia dal contatto in via privata del giudice con soggetti direttamente interessati al procedimento (Barone, Commentario Amodio-Dominioni, I, 238).

Proseguendo la lettura dell’art. 36 c.p.p., vediamo che il giudice, inoltre, ha l’obbligo di astenersi:
c) se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie;
d) se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private;
e) se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato dal reato o parte privata;
f) se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di pubblico ministero;
g) se si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità stabilite dagli articoli 34 e 35 e dalle leggi di ordinamento giudiziario;
h) se esistono altre gravi ragioni di convenienza

Cosa succede se il giudice non si astiene?

Il legislatore ha previsto un determinato numero di situazioni in cui il giudice si presume parziale e può, in caso di accertata esistenza delle medesime, essere estromesso. Tali situazioni sono tassativamente indicate all’art. 37 c.p.p. e coincidono con le ipotesi in presenza delle quali il giudice ha l’obbligo di astenersi, ad eccezione di quella indicata all’art. 36, lett. h), c.p.p. (gravi ragioni di convenienza).
In tutti questi casi, nonché quando, nell’esercizio delle funzioni e prima che sia pronunciata sentenza, manifesti indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione, il giudice può essere ricusato.
Pertanto, allorché il giudice, pur ricorrendone l’obbligo, non si astiene, oppure manifesti indebitamente il proprio convincimento, potrà essere ricusato attraverso una dichiarazione, proposta con atto scritto e presentata in cancelleria, contenente l’indicazione dei motivi e delle prove.
La dichiarazione di ricusazione può essere fatta personalmente dall’imputato o dal suo avvocato munito di apposita procura speciale.
Il giudice ricusato non può pronunciare né concorrere a pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione.

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